La visione di ciò che non c'è

Parelio sul cielo di Münster – public domain

Il 20 aprile 1535, a Stoccolma sarebbe stata una gelida mattina di primavera come tante, se non fosse che nel cielo si formò un ampio alone bianco e attorno al sole comparvero sei nuovi soli. In molti lasciarono le proprie attività e corsero a rinchiudersi in casa, convinti si trattasse di un presagio nefasto o del segno dell’ira di Dio contro il Re, Gustavo, che aveva da poco introdotto il protestantesimo nella nazione. Al contrario, i sostenitori del Re, interpretarono il fenomeno come la profezia di una congiura contro il sovrano, il “vero sole” minacciato da sei falsi soli, pronti a usurparne il trono. 

I presunti colpevoli furono individuati e accusati di alto tradimento. Si trattava di un diacono e di un predicatore, Olaus Petri, detto Mastro Olof. Quest’ultimo aveva commissionato un dipinto raffigurante una veduta della città coi sei soli e l’aveva mostrato durante alcuni sermoni, sostenendo simboleggiasse il giorno in cui il Diavolo aveva annunciato il suo dominio sul Mondo, esercitato per mano della monarchia e di coloro che vi obbedivano. 

La tela, conosciuta come Vädersolstavlan, è ritenuta la più antica rappresentazione pittorica di Stoccolma e la prima raffigurazione di un parelio.

Vädersoltavlan – immagine: public domain

I cani del sole

Il parelio è un fenomeno ottico dovuto alla rifrazione della luce solare da parte di minuscoli cristalli di ghiaccio esagonali che si formano nell’atmosfera alle basse temperature. Già Aristotele lo descriveva come un fenomeno meteorologico ma, a quanto pare, nella Stoccolma medievale questa consapevolezza era andata persa. O forse no?

La correlazione tra il parelio e le condizioni climatiche era descritta anche in diversi almanacchi popolari Svedesi e lo stesso Re, a chi temeva per la sua incolumità, aveva risposto di non aver nulla di cui preoccuparsi: i falsi soli erano comparsi soltanto per pochi minuti, dopo i quali nel cielo era rimasto “l’unico vero sole”. Semplicemente, da tempo tra lui e Olaus Petri non correva buon sangue e l’apparizione dei cerchi di luce si era rivelata l’occasione giusta per liberarsi di un fastidioso contestatore.

Il termine parelio deriva dal greco para (vicino), helios (sole), vicino al sole, ma in inglese il fenomeno è chiamato comunemente sun dog, letteralmente il cane del sole. Non ne conosciamo con certezza l’etimologia. Secondo il fisico norvegese Jonas Persson il termine potrebbe derivare dall’antica mitologia nordica, in particolare dalle figure di due lupi che si racconta inseguissero il sole e la luna.

Parelio – foto: Bini Ball – CC BY-SA 4.0

La Terra di Sannikov

“Se non lo vedo, non ci credo”. Con queste parole il più delle volte intendiamo: “Se lo vedo, allora è reale”. Ma siamo sicuri sia sempre così? Come dimostra ciò che accadde a Stoccolma la mattina del 20 aprile 1535, a volte dobbiamo fare i conti con la visione di ciò che non c’è, o che non è esattamente lì.

Nel 1811, l’esploratore russo Jacob Sannikov, alla guida di una spedizione cartografica nel Mar Glaciale Artico, avvistò a distanza un’isola, prima sconosciuta, a nord dell’arcipelago della nuova Siberia. Il navigatore non vi fece rotta ma si limitò a segnalarne la presenza sul diario di bordo. 

Settant’anni più tardi, il barone tedesco Eduard Von Toll, in viaggio verso il Polo Nord, scorse all’orizzonte la stessa isola riportata da Sannikov. Due anni dopo, persuaso di poter piantare la propria bandiera su quel lembo di terra, raggiunse di nuovo il luogo in cui era avvenuto l’avvistamento, ma dell’isola non c’era nessuna traccia. Von Toll era convinto di aver sbagliato a riportarne la posizione sulla carta durante il viaggio precedente, e proseguì verso Nord, sfidando ghiacci e tempeste. Di lui, della sua nave e del suo equipaggio non si seppe più nulla.

La Terra di Sannikov non fu mai ritrovata ed è diventata soggetto di film e racconti di fantascienza. Negli anni si sono susseguite diverse ipotesi sulla sua apparizione: dall’iceberg, al banco di sabbia alla Fata Morgana.

Terra di Sannikov sulla mappa Stanford del Mondo – public domain

La Fata Morgana

La Fata Morgana è un miraggio che si verifica nella porzione di cielo appena sopra l’orizzonte. È conosciuta col suo nome italiano anche in altre lingue perché il fenomeno è particolarmente frequente nello stretto di Messina a causa delle condizioni meteorologiche favorevoli.

Come è ovvio, il nome fa riferimento alla mitica antagonista di Re Artù, la quale – secondo la mitologia nordica – aveva la capacità di cambiare forma ed era spesso accusata di causare miraggi sulle acque.

A chi assiste a una Fata Morgana, sembra di vedere città, navi o isole laddove non ci sono. Talvolta queste visioni appaiono rovesciate o sospese appena sopra l’orizzonte marino. Molto frequentemente si tratta di oggetti nascosti al di là della linea d’orizzonte a causa della curvatura della Terra. La Fata Morgana più nota è probabilmente l’Olandese Volante, la nave fantasma avvistata spesso al largo del Capo di Buona Speranza, protagonista di numerosi racconti e leggende.

Fata Morgana nel Baltico – foto: PtrQs – CC BY-SA 4.0

Il raggio verde

La linea dove cielo e terra si uniscono è da sempre un luogo di visioni. 

La sera del 16 ottobre 1929, l’ammiraglio Richard Byrd, a capo di una spedizione al Polo Sud, riportò sul diario di bordo un’osservazione interessante. L’ultimo spicchio di sole sfiorava l’orizzonte ormai da molte ore, come è normale durante il lungo giorno antartico, e continuava a comparire e scomparire a causa del rollio dell’imbarcazione e delle irregolarità della superficie della neve. In questo manifestarsi e sottrarsi alla vista, appena sopra il lembo superiore del disco solare era possibile notare, di tanto in tanto, un bagliore verde della durata di poche frazioni di secondo. A volte era possibile vederlo semplicemente abbassando o sollevando la testa.

Tale effetto è conosciuto come il raggio verde, un fenomeno che, nel caso della missione dell’ammiraglio Byrd, fu favorito da circostanze geografiche e meteorologiche eccezionali. 

In condizioni normali, il raggio verde è fugace e difficile da osservare. A lungo lo si è creduto addirittura frutto dell’immaginazione o il risultato della persistenza dell’immagine del sole sulla retina dell’osservatore, nell’istante in cui svanisce nel mare. Se così fosse, però, non sarebbe possibile immortalarlo in fotografia e non sarebbe visibile all’alba, come invece accade. 

La particolarità forse più interessante del raggio verde è la sua correlazione col tempo. Il fenomeno dura soltanto una frazione di secondo ma, per vederlo, spesso bisogna fare numerosi tentativi ed essere predisposti a lunghe attese che possono diventare occasione di stringere nuove amicizie, avviare riflessioni, approfondire relazioni. 

Nel suo romanzo Il raggio verde, Jules Verne racconta di una donna che decide di rinviare le nozze con un uomo di cui non è innamorata, finché non avrà visto il raggio verde. I tentativi della giovane di assistere al fenomeno sono vanificati da varie complicazioni: dall’onnipresente nebbia, al passaggio di nuvole, uccelli, barche a vela che coprono il sole nell’istante meno opportuno. In questa lunga attesa, la protagonista del romanzo finirà per innamorarsi di un pittore di tramonti e il raggio verde si manifesterà quando i due sono troppo impegnati a guardarsi negli occhi.

Il raggio verde – Foto: Marcomiele59 – CC BY-SA 4.0

Lo Shiranui

Visioni come il raggio verde o la Fata Morgana sono inafferrabili. Più ci avviciniamo a loro, più si allontanano. Nei casi estremi possono condurci a un destino infausto, come accadde al barone Von Toll nel suo inseguire l’Isola di Sannikov. 

Durante la spedizione per conquistare l’attuale prefettura di Kumamoto, l’imperatore giapponese Keikō avvistò all’orizzonte alcune luci, simili a fuochi. Improvvisamente, i bagliori divennero centinaia e iniziarono a muoversi freneticamente, talvolta sollevandosi verso il cielo, come spade di fuoco. L’imperatore provò a inseguire una delle fiamme ma questa scomparve. A differenza di Von Toll, Keikō fu assennato e tornò indietro. Una volta sbarcato, i nobili locali gli riferirono che probabilmente aveva assistito agli Shiranui, fiamme sconosciute, un fenomeno comune da quelle parti negli ultimi giorni di luglio.

I meteorologi giapponesi hanno prodotto un’importante mole di studi per tentare di chiarirne l’origine senza tuttavia arrivare a una spiegazione univoca o condivisa. Per qualcuno si trattava dell’eruzione di un vulcano sottomarino, ma perché sempre gli ultimi giorni di luglio? Per altri era un fenomeno atmosferico che distorceva le luci delle imbarcazioni distanti, ma anche questo non spiegava la ciclicità del fenomeno. Forse si poteva motivare col passaggio di meduse bioluminescenti? Di certo, sappiamo soltanto che, da quando le città costiere sono illuminate dall’elettricità, nessuno ha mai più visto i fuochi danzanti nel mare di Kumamoto.

Raffigurazione dello Shiranui – public domain

Pilastri di luce

Se l’inquinamento luminoso ci ha privato della visione dello Shiranui, ha invece accentuato la comparsa dei pilastri di luce. Questi bagliori verticali che si estendono dalla superficie terreste fino al cielo sono provocati dal riflesso di una sorgente luminosa sui cristalli di ghiaccio sospesi nell’atmosfera alle basse temperature. In passato, quando i villaggi più remoti non potevano godere di nessuna forma d’illuminazione artificiale, a innescare l’effetto ottico poteva essere un fuoco da campo o, più frequentemente, il sole o la luna. Per la rarità con cui comparivano i pilastri di luce, si diceva che chiunque ne avesse visto uno avrebbe avuto un futuro di prosperità e ricchezza. Oggi, per via dell’illuminazione delle città, il fenomeno è diventato piuttosto comune e l’inganno facilmente svelato. Ciò nonostante i pilastri di luce non smettono di avere l’aura magica che li ha caratterizzati per secoli, e la visione di queste lame di colore che si ergono fino al cielo ci lascia stupefatti, quasi come se ci trovassimo di fronte a un’aurora.

Pilastri di luce – Foto: Christoph Geisler – CC BY-SA 3.0

La Grande Aurora

Il 28 agosto 1859, mente sul continente americano calava la notte, nel cielo comparve una spettacolare danza di scie, archi, raggi, corone, e drappi di luce di diverso colore. Gli strumenti scientifici di tutto il mondo registrarono interferenze elettriche di notevole intensità e le linee telegrafiche divennero inutilizzabili per oltre 14 ore. Lo spettacolo rimase visibile per cinque minuti, dalle aree più nordiche del continente fino ai Caraibi. Diciassette ore più tardi, nuovi bagliori apparvero in cielo sollevandosi verso lo zenit, come a congiungersi in un unico punto di convergenza. Lo spettacolo questa volta fu visibile anche da Panama. Nel frattempo, l’astronomo inglese Richard C. Carrington notò alcune macchie solari insolitamente ampie che emettevano un’intensa luce biancastra. Fu una delle tempeste solari più violente a memoria d’uomo. Per la prima volta, si stabiliva una connessione tra le aurore polari e le forze dell’elettricità e del magnetismo, e le antiche ipotesi sulla loro origine vennero abbandonate. 

Fino ad allora, per la scienza si trattava di luce riflessa dagli iceberg o di lampi ad alta quota, mentre nella mitologia di molte regioni nordiche, a causare le aurore erano gli spiriti degli eroi morti. In Finlandia, invece, le aurore sono conosciute come revontulet, letteralmente volpe di fuoco, perché si credeva fossero causate da mitiche volpi polari che correvano nel cielo. 

Un evento come la Grande Aurora del 1859 si verifica circa ogni cinquecento anni. Meno rara, invece, è la possibilità di vedere un’aurora a latitudini diverse dai poli. All’inizio del XVII secolo, Il professore Eustachio Zanotti aveva riportato negli annali dell’Osservatorio della Specola dell’Università di Bologna la comparsa di diverse aurore boreali. 4e3wsa<Nel 1848 un’imponente aurora fu visibile dall’Osservatorio di Capodimonte. Il 26 gennaio 1938 un articolo del Corriere della sera titolava: “Una luminosa aurora boreale nel cielo d’Europa. L’intensità del fenomeno magnetico notato ieri sera da Roma a Trieste”, riportando le date di altre quattro aurore comparse sull’Italia nell’ultimo cinquantennio del XIX secolo.

Aurora Polare – Foto: U.S. Air Force

Dei fenomeni raccontanti finora, le aurore polari sono le uniche a interessare i nostri sensi al di là della visione. Nel folklore e nelle testimonianze personali di chi vive nelle regioni più a nord del pianeta, talvolta le aurore sono accompagnata da schiocchi, crepitii o colpi simili al battere delle mani. Per anni, questi suoni sono stati considerati illusioni uditive, provocate probabilmente dal trovarsi di fronte alla magnificenza del fenomeno. Tuttavia, numerose ricerche succedutesi nel corso degli anni, hanno confermato che in rarissimi casi le aurore possono produrre ronzii, sibili o scoppi anche se non si è riusciti a stabilire quale ne sia la causa. Janne Hautsalo. «Study of Aurora Related Sound and Electric Field Effects», s.d.) Molto più facile è registrare le alterazioni elettromagnetiche provocate dall’aurora e convertirli in suoni mediante strumentazioni particolari.

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