Come un Buddha di stucco si tramutò in oro

Foto: Pierpaolo Ferlaino

«Non tutto ciò che luccica è oro», dice un famoso proverbio. Mi frulla in testa mentre vago per la China Town di Bangkok alla ricerca del Wat Traimit. Ci sono passato accanto più e più volte ma non avrei mai immaginato che la costruzione grigia, dalle linee quasi sovietiche, attorno a cui continuo a girare, potesse essere uno dei templi più frequentati della città. Sembra quasi che il suo aspetto, pressoché anonimo, sia una scelta per ricordare la storia del Buddha di circa settecento anni fa, custodito al suo interno. O forse è soltanto un caso, come lo fu la scoperta che un gruppo di monaci fece qui la mattina del 25 Maggio 1955.

Il Buddha tra le macerie

Tre secoli prima, nel 1767, i Birmani avevano raso al suolo Ayutthaya, l’antica capitale del regno del Siam. Avevano bruciato manoscritti, distrutto edifici, deportato la popolazione e depredato la città dell’oro che ricopriva i suoi monumenti e i suoi templi. Tra le macerie, ormai invase dalla giungla, rimase anche la statua di un Buddha di stucco, poco preziosa e troppo pesante perché fosse portata via.

Pochi anni dopo, durante il regno di Re Rama I, la Thailandia era pronta a riappropriarsi del suo antico splendore. La nuova capitale, Bangkok, prima soltanto un villaggio, doveva espandersi, diventare una città moderna. C’era bisogno di nuove strade e nuovi templi. E i nuovi templi avevano bisogno di immagini sacre a cui la gente potesse rivolgere le proprie preghiere. Tra le rovine di Ayutthaya ce n’erano a centinaia e, tra queste, un grande Buddha di stucco, troppo pesante e poco prezioso perché i Birmani lo portassero via.

Inizialmente, il Buddha fu sistemato nel Wat Chotanaram, un tempio che poi fu chiuso. In seguito venne spostato al Wat Traimit, un tempietto minore, così piccolo da non avere spazio per ospitarlo. La statua rimase all’aperto, in balia delle intemperie, fino all’inizio degli anni ’50, quando fu costruita una nuova sala della preghiera abbastanza grande da poterla accogliere.

Foto: Pierpaolo Ferlaino

La fortuna in un numero

Per sollevare un oggetto pesante sono necessarie perizia e cautela. Soprattutto quando si tratta di un’immagine sacra. Per la cultura Thai, danneggiarla porterebbe grande sfortuna. La mattina del 25 maggio 1955, gli operai chiamati a spostare il Buddha del Wat Traimit, sicuramente pensarono di avere un karma negativo quando sentirono le corde del loro argano scricchiolare e poi rompersi con uno schiocco secco. La grande figura di stucco rimase sospesa a mezz’aria per qualche secondo prima di precipitare sul pavimento. Il monaco responsabile del trasporto impallidì. Non poteva essere successo proprio a lui. Poi fu accecato da uno strano bagliore.

I Thailandesi sono ossessionati dai numeri. E che il 1955 fosse un anno fortunato lo scrivevano tutti i giornali. Uno degli angoli della base del Buddha si era infranto e ne aveva rivelato la sua vera natura. Durante l’assedio di Ayutthaya, prima che il tempio venisse invaso dal fragore della battaglia, per evitare che la statua finisse in mani nemiche, i monaci la ricoprirono di stucco. Ma quel Buddha era d’oro. Il più grande Buddha d’oro del Mondo, secondo il Guinnes dei Primati. Tre metri d’altezza, cinque tonnellate e mezzo di peso, e un valore stimato di 200 milioni di dollari. «Non tutto è oro ciò che luccica», dice un famoso proverbio, ma a volte anche ciò che non luccica è oro.

Lascia una risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *