El Dorado. L'uomo che diventò città

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Quando giunse nel luogo indicato, Pizarro trovò soltanto foresta e sterpaglia. D’oro non ce n’era la benché minima traccia. Gli Indios gli avevano mentito. Ne era certo. Ma prima o poi ce l’avrebbe fatta. Avrebbe trovato El Dorado. Forse non sapeva che stava inseguendo soltanto un sogno. Perché prima di trasformarsi in città, El Dorado era un uomo.

Nuovo mondo

Tutto era iniziato molti anni prima. Quando i primi coloni spagnoli erano sbarcati sulle coste delle “Indie Orientali”, alcuni nativi di quelle terre avevano raccontato loro di un uomo. Viveva in una remota foresta e ogni anno cospargeva la propria pelle di polvere d’oro e resine odorose. Lo chiamavano El Indio Dorado, El Dorado. Dopo aver ricoperto il suo corpo del prezioso metallo, El Dorado saliva a bordo di un’imbarcazione, raggiungeva il centro di un lago e vi versava dentro ricchezze di ogni tipo. Chi poteva permettersi un simile sperpero, pensavano gli Spagnoli, doveva vivere in un paese in cui vi erano grandi tesori: il paese di El Dorado. Alcuni lo identificavano con la mitica Ofir, la città biblica da cui Re Salomone riceveva ogni anno immensi carichi d’oro. Per secoli in molti l’avevano cercata, ma invano. Forse perché si trovava in un mondo che l’umanità aveva dimenticato? Quello che tutti ora chiamavano il “Il Nuovo Mondo”? Doveva essere proprio così. Ofir era El Dorado.

Alla ricerca di El Dorado

Per scoprire dove si nascondesse la città tutta d’oro, furono organizzate decine di spedizioni alle quali parteciparono alcuni dei conquistadores più celebri dell’epoca: Sebastián de Belalcázar, Hernán Cortés, Antonio de Berrio, Lope de Aguirre, a cui è ispirato il protagonista di Aguirre Furore di Dio, del regista tedesco Werner Herzog. Ma non furono soltanto gli spagnoli a cercare El Dorado. Ci provarono pure i tedeschi e gli inglesi, come il corsaro-poeta Walter Raleigh. Tutti volevano riempire le loro galee del metallo per il quale l’umanità da secoli scatenava guerre e commetteva genocidi e massacri. E per riuscirci, anche stavolta, furono decimate intere popolazioni, distrutte civiltà secolari, e fu tradita la fiducia di chi, in molti casi, vedeva gli stranieri come ospiti da accogliere con tutti gli onori.

Nel 1519, Hernán Cortés salpò da Cuba e raggiunse la capitale azteca di Tenochtitlán, in Messico, dove l’imperatore Montezuma lo ricevette con balli, feste e gli donò moltissimo oro. Invece di apprezzare il gesto di riconoscenza, Cortés si convinse che doveva essercene ancora di più. Con un sotterfugio, rapì Montezuma e setacciò la città. Non trovando le quantità d’oro che aveva immaginato, in breve conquistò l’intero Messico. Rinvenne diverse vene d’oro e d’argento ma nessuna El Dorado. La mitica città andava cercata altrove.

Montezuma – Immagine: public domain

La città di cannella

Spagnolo dopo spagnolo, europeo dopo europeo, la nuova Ofìr prendeva nomi e contorni sempre diversi: Manoa, Omagua. Città che nessuno riusciva a individuare o territori in cui non si trovava alcun tesoro. Un indio torturato da Gonzalo, fratello minore di Francisco Pizarro, rivelò che El Dorado si trovava in una regione chiamata Guyana, dove germogliavano gli alberi della cannella, una spezia molto ricercata in Europa e, come tale, sinonimo di ricchezza. Ancora una volta, nella fantasia del conquistatore, un paese in cui la cannella abbondava doveva avere una capitale colma d’oro e pietre preziose: la mitica città di La Canela, che in alcuni racconti viene addirittura identificata con El Dorado. Tuttavia in nessuna delle zone in cui s’inoltrò Pizarro le quantità di cannella erano tali da giustificare il mito, e ciò lo spinse a proseguire la sua ricerca, mettendo a ferro e fuoco qualsiasi villaggio incontrasse sulla sua strada.

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La sala del riscatto

Raggiunta Cajamarca, capitale degli Inca, Pizarro catturò il re Atahualpa, pensando in questo modo di instaurare un governo fantoccio. Il re sapeva bene di avere di fronte degli avidi conquistatori e propose di scambiare la sua libertà con una quantità di ricchezze mai vista prima. Atahualpa avrebbe fatto riempire una stanza di cinque metri per sei con oro e pietre preziose fino a raggiungere l’altezza di un uomo. A Pizarro brillarono gli occhi e accettò il patto. Anche se non era la mitica Ofir, in fondo aveva trovato la sua El Dorado!

Ancora oggi, tra le rovine di Cajamarca, esiste una costruzione indicata dagli archeologi come la sala del riscatto di Atahualpa. In realtà, è improbabile che sia stata effettivamente riempita d’oro. Si tratta piuttosto di una leggenda, o di un sotterfugio escogitato dal re Inca per prendere tempo. Di certo sappiamo soltanto che Atahualpa fu ucciso e che gli spagnoli conquistarono il Cile. El Dorado era sempre più lontana.

Atahualpa mostra quanto oro è disposto a offrire per la sua libertà – Foto: BluesyPete – CC BY-SA 3.0

Il corsaro poeta

Forse l’ultimo avventuriero ad essere profondamente convinto dell’esistenza della città perduta fu Walter Raleigh. Il corsaro inseguì il suo sogno impegnandosi in ben due spedizioni, l’ultima delle quali gli costò la vita. Dopo aver attaccato a sorpresa una colonia spagnola in Venezuela, in violazione degli accordi di pace tra il suo paese la corona spagnola, al ritorno in patria fu condannato a morte per decapitazione. Era il 1618. Nei secoli successivi, El Dorado sembrava ormai soltanto una scusa. Si organizzavano viaggi il cui scopo era immancabilmente la conquista di territori o la predazione di risorse locali.

Sulle rive del Guatavita

Su una cosa però gli spagnoli avevano ragione. El Indio Dorado molto probabilmente è esistito davvero. Ma non era ciò che loro avevano immaginato. Per gli Indios Muisca, una tribù che viveva sugli altopiani attorno a Bogotà, in Colombia, gli specchi d’acqua erano luoghi sacri. E la laguna di Guatavita lo era ancora di più, per via della sua forma particolare: perfettamente circolare, protetta da alture, del tutto simile a un cratere. Si credeva fosse stata creata da un dio dorato caduto dal cielo per stabilirsi sul fondo del lago. Ogni anno, chiunque nel villaggio si fosse macchiato di qualche colpa poteva recarsi sulle rive del Guatavita e manifestare la propria intenzione di purificarsi, liberandosi di oggetti a cui attribuiva un certo valore. Le offerte più generose provenivano dal capo villaggio, lo Zipa. Dopo aver cosparso il suo corpo con resine profumate e polvere d’oro, raggiungeva il centro della laguna con una zattera, si lavava ed offriva alla divinità diversi beni preziosi, non sempre necessariamente dell’oro. Quando Cristoforo Colombo mise piede per la prima volta sull’isola di San Salvador, tuttavia, questo rito era scomparso da tempo. Nei racconti dei nativi, lo Zipa dei Muisca, era diventato El Dorado e, nella fantasia degli spagnoli, una città tutta d’oro.

Zattera d’oro dei Muisca – foto: Pedro Szekely – CC BY-SA 2.0

La forza di un mito

Alcuni studiosi ritengono che molte delle leggende su territori remoti in cui si trovavano città prospere di ogni ricchezza, i nativi le raccontavano per allontanare il più possibile gli europei dal loro territorio. Il che è molto probabile, ma forse non è l’unica spiegazione. Nello stesso periodo in cui Pizarro muoveva verso la capitale del Re Atahualpa, tre campagne di esplorazione partite contemporaneamente, da luoghi diversi, per cercare Eldorado, si incontrarono nella stessa foresta. Questo episodio non può che aprire un interrogativo. Cos’è la ricchezza? Per gli spagnoli era l’oro, ma per i nativi?

Cos’è la ricchezza?

È vero. Inca, Atzechi e Maya facevano un grande sfoggio d’oro, ma forse non lo consideravano così prezioso quanto lo era per gli europei. L’oro era utilizzato a scopo rituale ma non come moneta, seppure alcune popolazioni lo usassero come merce di scambio, ad esempio per acquistare il sale. Una maggiore importanza veniva attribuita invece al guanín, una lega d’oro, argento e rame, per la cui fusione erano necessarie raffinate conoscenze tecniche da parte dell’uomo. L’oro invece, si trovava così com’era in natura. Non aveva nulla di speciale. Secondo il giornalista scientifico Hugh Aldersey-Williams questo potrebbe spiegare perché le popolazioni locali scambiavano volentieri il loro oro con orpelli d’ottone, una lega di scarso valore per gli spagnoli ma sconosciuta in Sudamerica, la cui produzione richiedeva conoscenze simili a quelle necessarie a realizzare il guanín. Inoltre è anche probabile che gli indios non stessero mentendo. Forse in quella foresta in cui s’incontrarono le tre spedizioni spagnole, nei luoghi visitati da Pizarro, Cortés, Raleigh, c’era davvero qualcosa di molto prezioso per i nativi. Forse c’era davvero la loro El Dorado. Semplicemente, accecati dall’avidità, gli europei non erano stati in grado di vederla.


Per approfondire:

  • Evan S. Connell. El Dorado And Other Pursuits. Pimlico, 2002.

  • Hugh Aldersey-Williams. Favole periodiche. La vita avventurosa degli elementi chimici. Tradotto da D. Didero, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2012.

  • John Hemming. «The draining of the lake Guatavita». The search for El Dorado, E.P. Dutton, 1978.

  • Manuel Lucena Salmoral. El mito de el dorado. Historia 16, 1985.

  • Matthew Restall. Seven Myths of the Spanish Conquest. Oxford University Press, 2004.

  • Rogger Ravines. El Cuarto del Rescate de Atahualpa 1532-1986. Istituto Nacional de Cultura de Lima, 1987.

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